Joker

Comincio col botto, apro le danze (ho scelto accuratamente questa frase) con il film del momento, quello che ha smosso da una parte e dall’altra l’opinione di tutto il mondo… Joker.

Premetto che questa, come tutte le altre mie indagini interiori sui film che verranno, è la pura espressione di un’opinione personale, una visione che non viene da una cinefila accanita ma da una spettatrice qualunque. Non cercherò similitudini strane o scopiazzature e non viaggerò per mondi paralleli. Questa sono io, dopo aver visto da sola un film al cinema, seduta sulla mia sedia numerata davanti a un grande schermo.

Bene, Joker.
Ne avrei davvero troppe da dire su questo film, troppe idee che continuano solo ad aumentare man mano che rifletto sull’opera. Ho delle serie difficoltà in effetti a mettere insieme un discorso coeso e lineare perché so che significherà inesorabilmente che dovrò lasciare da parte le diramazioni varie che ogni tematica porterebbe con sé. Ma devo dire qualcosa, perché questo film se lo merita davvero.

Quando ho visto il primo teaser, con un Joaquin Phoenix quasi irriconoscibile cui si sovrappone lentamente una diapositiva di questo clown fino a sopraffarla; quando ho visto per la prima volta quel trucco mi sono sentita un po’ confusa, forse anche preoccupata. Il Joker, un personaggio che ho amato fin da piccola, così eclettico e pieno di possibilità, così diverso nelle interpretazioni che si sono susseguite negli anni ma sempre lui, sempre riconoscibile nei suoi vari interpreti, eccezion fatta per me per un Jared Leto discutibile… ecco quel Joker avrebbe avuto ancora un’altra faccia, un altro trucco.

I mesi si sono susseguiti e, sedimentata buona parte dei dubbi, ho evitato accuratamente di guardarmi ogni tipo di trailer: sapevo già che volevo andare a vedere questo film e non servivano conferme, non volevo anticiparmi nemmeno un fotogramma.
Così sono andata in sala convinta, e dalla prima all’ultima scena sono stata totalmente rapita da questo capolavoro.

La vita è dura
Il film ci presenta Arthur, di cui potremmo parlare per ore davvero. Un uomo abbastanza anonimo che tira a campare. Un clown da feste, bullizzato da dei ragazzini in strada. Una persona fragile che usufruisce dei programmi sanitari della città per poter avere qualcuno a cui raccontare i suoi disagi e per potersi curare dai disturbi psichici. Un figlio affettuoso che si occupa di una madre anziana e problematica. Un sognatore.
Arthur è stato definito da molti spettatori un tipo “estremamente sfortunato”, al limite del paradossale, una caricatura esagerata che vuole muovere a una compassione altrettanto esasperata. Eppure nel seguire la sua quotidianità non l’ho vissuto come una situazione così lontana dalle nostre realtà, non ho pensato per un istante che non esista un po’ di Arthur in tutti noi, e che non ci siano delle persone in queste condizioni nel mondo. Purtroppo, e qui lo dico per tutti quelli che ancora hanno dei dubbi, Arthur esiste, ma nessuno lo vede.
Ed è questa la chiave per capirlo: il suo desiderio di essere riconosciuto, capito e amato per come è. Un uomo che arranca ogni giorno su per una scalinata, come ad uscire dalla profonda solitudine e dalla continua battaglia con se stesso.

La cosa divertente dell’avere una malattia mentale
Arthur ha molti problemi psicologici, infatti prende sette medicinali diversi. La prima cosa che ho pensato: cavolo ne prende abbastanza da far sì che si annullino tra di loro. In effetti la situazione è critica, ma nessuna delle sue patologie viene esplicata chiaramente nel film, tranne una.
La risata incontenibile di Arthur, che compare solitamente in momenti di forte imbarazzo del personaggio, di tensione o senza motivi apparenti, esiste ed è uno stato di incontinenza affettiva chiamato Pseudobulbar Affect: una patologia causata da un danno neurologico. Una risata che da subito, appena in sala ho capito che era un disturbo, mi ha ricordato quel modo sguaiato ed estremo del Joker di ridere tra una frase e l’altra, come ad aver afferrato qualcosa di ironico nascosto tra dialoghi e scene. Anche Arthur sembra ridere di gusto, per quanto i suoi occhi si riempiono di lacrime e l’imbarazzo e la sofferenza smontino la metà del suo viso che non è teso in quella risata. Una sofferenza guardarlo ridere ed essere additato, ridere ed essere picchiato, ridere e non riuscire a dire le battute che vorrebbe quando finalmente è riuscito a salire sul palco del “Pogo club”.

Io sono Arthur Fleck
Non è stato così difficile entrare in alcune dinamiche di Arthur, perché quello che Todd Philips (regista) ci presenta è un uomo che sogna ad occhi aperti, un uomo che ha delle visioni idilliache che alimentano le sue speranze. Come dimenticare la scena in cui si immagina al “Murray Franklin Show” dove le persone lo ascoltano, empatizzano con lui e si sente amato da tutti? O quando, verso il finale, prova da solo la scena di entrata allo stesso show prima di andare in onda? Non è mai capitato a nessuno di “fare delle prove” per un evento o una situazione importante, di sognare situazioni difficili, ma possibili, ad occhi aperti? Io non mi sono sentita così lontana da questa visione, dall’intento di cercare di essere Arthur, dal tentativo di aprire una lotta dentro me stessa tra l’empatia per il personaggio e la voglia di distaccarmi dalle sue azioni e dalle sue scelte.

Una brutta giornata
La vita di Arthur è dura, l’abbiamo detto. L’impressione che ho avuto subito è di un vaso incrinato, pronto a rompersi in ogni momento. La citazione per eccellenza che questo film fa al personaggio del Joker è presa da “The Killing Joke” di Alan Moore dove lo stesso personaggio dichiara che basta una brutta giornata a cambiare un uomo. Arthur ha avuto una brutta giornata, “delle settimane un po’ dure”, una vita orribile. Vita di cui lui si rende conto di aver dimenticato i veri momenti di perdizione, quelli della sua infanzia in cui è stato maltrattato e dalla quale non riesce a cavare un vero perché, una vera ragione di esistenza. Sì Arthur ha avuto una brutta giornata, ma il Joker no. Quello che trasforma, che sposta totalmente il personaggio da un confine all’altro è in realtà la totale resa alla sua essenza. Le cose cominciano a precipitare quando Arthur decide di non stare più in silenzio a subire, e spara ai tre ragazzi di Wall Street che lo stanno picchiando selvaggiamente. Spara con rabbia, senza altro obbiettivo che non quello di terminare ciò che non va più nella sua vita. E tornando all’empatia (stiamo ancora parlando di un film) non sarò ipocrita, io ero totalmente dalla sua parte. Basta Arthur, hai ragione. La sua è una rabbia così forte che addirittura rincorre l’ultimo dei tre fino alle scale della metro, per poi rendersi conto davvero di ciò che è successo e con un fischio sordo nell’orecchio scappa da tutto. Istintivo, ma davvero è stato solo questo?

La danza col diavolo nel pallido plenilunio
Corre lontano, si nasconde in un bagno pubblico.
Balla.
Joaquin Phoenix ha sempre sostenuto che Arthur ha una musica dentro, una melodia sopita, quasi magica.
La danza è catartica, sembra quasi un susseguirsi di posizioni tantriche che liberano energia, mentre il respiro di Arthur si calma, i nervi si distendono e lui si sente finalmente connesso a tutto il suo essere. Completo.
La danza di Arthur si chiama Joker, e comincia da qui in poi a venire in soccorso del nostro personaggio, a salvarlo da imbarazzi, a renderlo libero da ogni vincolo e morale.

Era bello immaginarti così…
Ho già detto che è difficile fare un’analisi continuativa di questo film, ma tornano un po’ indietro e andando avanti allo stesso tempo abbiamo anche conosciuto, montato e smontato il personaggio di Sophie (Zazie Beetz). La classica ragazza della porta accanto che conosciamo per caso in ascensore e che vediamo a fianco di Arthur in alcuni dei momenti più importanti della sua vita per poi scoprire che, ascensore a parte, lei non è mai stata con lui. A parer mio l’intento del regista, quando tutta questa relazione molto strana per noi spettatori viene smontata, è stato quello di mostrare al pubblico che niente era vero, ma Arthur sapeva già che Sophie era una sua fantasia. Una consolazione sognata che gli ha dato la forza di affrontare finalmente il pubblico del “Pogo club” di Gotham, una voce che lo ha assecondato e che gli è stata vicina nei momenti più difficili.
Quando Arthur si arrende al baratro in cui sta sprofondando, dopo aver scoperto che ciò che davvero contava nella sua vita era stato tutto una bugia, lascia andare anche quell’ultimo pensiero felice che teneva salda la sua mente.
Da ciò che vediamo nel film sembra restare irrisolto il dubbio atroce che Sophie sia stata in fine uccisa da Arthur, e riflettendo sul fatto che risparmia il suo amico Gary perché è sempre stato buono con lui, penso che abbia fatto lo stesso con la ragazza. Lui cercava un ultimo, disperato, tentativo di conforto dalla perdizione, ma non poteva trovarlo in una casa dove era poco meno che uno sconosciuto.

Il tipo di clown che crea un movimento
Arthur, involontariamente, muove il pensiero di rivalsa dei poveri di Gotham City. La grande tematica della lotta dei poveri e reietti della società contro i ricchi, così distanti dalla realtà delle strade e dalle difficoltà trova il suo simbolo nel clown della metro. Non si tratta di un desiderio condiviso da Arthur: la sua è una battaglia personale contro tutto, contro anche sé stesso. Questo è il messaggio, non ci sono tanti altri giri di parole. Lo stesso Joker lo sosterrà, non c’è un inconscio desiderio di sommossa ma solo di essere riconosciuto come persona. Le polemiche sul rischio che questo sia un film pericoloso, che incita alla lotta contro il potere, contro i ricchi e i governatori è portata avanti da chi non ha guardato bene il film, da chi non l’ha capito. Il fatto che Gotham City sia l’emblema estremo dei mali della nostra società e che il Joker affondi le radici del suo tedio, della sua insofferenza personale e della sua rabbia nei cuori degli abitanti è dato appunto dall’estrema realtà di questa città. Potrei continuare sull’argomento ma, davvero, non è questo il tema. E se non l’avete capito riguardate il film vi prego.

Spero che la mia morte…
Tralasciando a malincuore molte altre questioni e scene nella mia riflessione e andando oltre Sophie si arriva al punto di non ritorno dove Arthur decide che è stanco, troppo, e spera che la sua morte abbia più senso della sua vita. Così, dopo aver totalmente rotto ogni ponte, dopo essersi tolto ogni rancore contro chi gli ha fatto del male, decide di prepararsi a uscire di scena in diretta televisiva, al Murray Show dove è stato invitato. Vuole chiudere per sempre, mostrandosi per una volta a tutti, mostrando che lui esiste davvero.

Tu sei orribile
E arriva alla fine la famosa diretta del “Murray Franklin Show” dove Arthur riesce ad approdare fuggendo dalla polizia, truccato di tutto punto da Joker.
Finalmente conosciamo anche noi di persona Murray Franklin (Robert De Niro) e Arthur, dal suo specchio con su scritto col rossetto “fai una faccia felice” lo supplica di presentarlo come Joker.
Quel nome, appioppato, calato sul nostro personaggio come una scure di umiliazione dallo stesso Murray quando, qualche giorno prima, lo prendeva in giro mostrando le riprese al “Pogo Club” dove si è esibito Arthur. Quel nome vuole farlo risuonare nelle teste di tutti gli spettatori. Accetta di stare allo scherzo di cui è vittima, lo ingloba nel suo essere trasformandosi definitivamente.
Da principio vuole proseguire col suo piano: farla finita. Poi qualcosa scatta quando, cercando una buona battuta, legge tra i suoi appunti “spero che la mia morte abbia più senso della mia vita” e possiamo salutare definitivamente Arthur e osservare il Joker prendere piano piano il suo posto, adattandosi un po’ caoticamente alla realtà. Così comincia un dibattito acceso, in cui Joker ammette di aver ucciso i tre di Wall Street, e tira un cazzotto morale dolorosissimo a tutti. Lui, un invisibile, uno che se fosse morto al posto di quei tizi gli avrebbero camminato sopra, è stanco di tutto questo perbenismo apparente. E’ stanco di sentirsi diverso, è stanco di adeguarsi, è stanco delle ingiustizie che tutti perpetuano nella città, anche Murray, arrivando a definirlo “orribile”.
Orribile. Il vocabolario ci dà così tanti spunti, e esistono così tante parolacce al mondo che fa quasi strano abbia scelto questa per definire il conduttore dello show. Ma orribile è una parola genuina, una parola che risuonerebbe meglio nella bocca di un bambino, perché è pungente nella sua semplicità. Orribile è lasciare un uomo malato di mente da solo, abbandonarlo come spazzatura e pensare di non doverne pagare le conseguenze. Pensare che non è un problema di tutti, che se è abbastanza lontano dagli occhi…

That’s life
Ho concluso il mio lungo percorso, ho parlato cercando di scegliere temi e parole ma potrei davvero… davvero continuare.
Per me non c’è molto altro da dire, questo è sicuramente uno dei film più belli che abbia mai visto, non tanto perché ha aperto una delle possibilità sulla nascita del Joker, ma perché non mi aspettavo di trovarmi di fronte a un’opera così semplice e complessa al tempo stesso. Uscita dalla sala sono stata mezz’ora a chiedermi cosa avevo appena visto, e sono voluta tornare più volte a vederlo, quasi alla ricerca dell’imperfezione ma in realtà, forse, per confortarmi che non sono una brutta persona.
La cosa stupefacente è che parla del Joker sì, e ci riesce perfettamente.
Il villain è nato, questo era solo il punto di partenza, la penna che si poggia sul foglio. Joker è nato, eppure il film parla di tante, tante altre cose, anche se non dovrebbe servire un film del genere per farci imbarazzare di fronte ai soprusi, per farci capire che, in una società dove l’apparenza è tutto, spesso se non sei qualcuno sui social, a lavoro, per strada, non esisti. Tutti esistiamo, ma siamo costantemente degli Arthur alla ricerca di uno spazio nel mondo dove sentirci, anche solo un pochino, amati, supportati, riconosciuti. Vivi.

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