Inauguro una categoria “senza categoria” in cui poter brevemente descrivere alcuni titoli visti ultimamente e che non necessitano, per me, che di poche righe.
Se amate l’horror leggero che sappia darvi qualche sprazzo di splatter e di commedia questo film è quello che fa per voi. L’ho trovato abbastanza deludente e scontato nei dialoghi iniziali… già ero preoccupata. Tralasciati i primi venti minuti di “spiegone” di trama, il film comincia ad avere un suo ritmo intrigante. Personalmente adoro lo humor nero, e qui se ne fa buon uso. Gli attori sono convincenti, la storia semplice e brillante come idea di base. Alcune cose sono prevedibili, ma sembrano fatte per esserlo, altre proprio no. Il finale potrebbe sorprendervi. Un buon film da consigliare per una serata in cui non si sa cosa guardare, o semplicemente si vuol vedere qualcosa di carino.
APOSTOLO Regista:Gareth Evans Genere:Thriller Anno:2018 Paese: USA, Gran Bretagna Durata: 129 min Distribuzione: Netflix
Parte bene, come ambientazione, personaggi e trama. Un po’ scontato in alcune dinamiche sociali ma ci poteva stare in questo thriller ambientato nel 1905. Qualche domanda comincia a nascere, qualche perché che ti tiene attaccato allo schermo. Poi tutto rallenta, anche troppo, finché si crea un vorticoso caos di eventi dietro a cui non sono riuscita a stare. “Troppa trama” è la sua croce, tant’è che dico: può andare bene ma non possiamo finirla in questa maniera. Un po’ deludente, potevano osare meno in certe dinamiche perché i presupposti iniziali erano ottimi. Un film per chi ama le trame fitte e non stacca mai mai gli occhi dallo schermo. Se vi perdete un fotogramma è la fine.
Che delusione. Davvero, cerco di trovare sempre il lato positivo di qualcosa, ma qui ce ne sono ben pochi. In un futuro prossimo, un ragazzo muto si trova a dover cercare la fidanzata scomparsa. La trama è letteralmente un caos di nomi e relazioni cui non son riuscita a stare dietro. L’ambientazione cozza costantemente con la vita del ragazzo che è pure Amish (e se la vive benissimo come barman in una città futuristica estrema) cosa che non sembra comunque fondamentale per la trama, quindi perché farlo? Qui anche se ti vedi tutto il film devi fermarti a prendere appunti per capire. Corre troppo veloce, troppa gente, troppo tutto. Un film pieno che sembra schiacciare il protagonista che diventa quasi parte integrante dell’arredamento. Per il resto se volete potete consigliarlo al vostro peggior nemico.
Apro una nuova categoria che avevo in mente da tempo, ossia quella esclusiva della produzione Netflix. Dato che ovviamente sono un’abbonata, ho pensato fosse giusto cercare di dare spazio anche a quel tipo di homecinema che non passa, o passa per pochissimo tempo, attraverso il grande schermo.
Se volete passare un’oretta e mezza di confusione e sbigottimento questo è il film che fa per voi. Basato sul racconto di Stephen King e del figlio Joe Hill, Nell’erba alta è un film che si muove a tratti come il più classico degli horror con quel tocco di paranormale e di thriller tipici della scrittura di King, ma che a parer mio pecca nell’approfondimento dei personaggi.
NELL’ERBA ALTA – TRAMA La storia parla di due fratelli, Becky (Laysla De Oliveira) e Cal (Avery Whitted), in viaggio verso la casa degli zii. In una sosta d’emergenza (la ragazza è incinta) sentono un bambino, Tobin (Will Buie Jr), chiedere aiuto da un campo di erba alta a bordo strada, ed entrano per aiutarlo ad uscirne. Da qui ovviamente parte tutta la trama del film vero e proprio, snodandosi tra cunicoli verdi in un terreno che sembra infinito e che farà perdere la via del ritorno anche ai due ragazzi.
HAI UNA STORIA? Quello che un po’ mi ha infastidita di questo film è che tutti i personaggi sono a malapena abbozzati. Non c’è una chiara definizione delle loro vite, eccezion fatta per le ovvietà che si riducono massivamente ai legami di parentela tra i protagonisti. Nell’erba alta potrebbe cambiare tutti i personaggi, poteva essere girato usando tutt’altro tipo di caratterizzazione perché questo non sembra in fin dei conti utile alla trama. Il vero protagonista di tutta la storia è questo enorme campo d’erba di cui, fino alla fine, capiremo comunque sempre molto poco ma per il paranormale e l’horror come genere puro può anche andare bene, a patto che vengano stabilite di base le regole generali a cui risponde questa parte di sovrannaturale. Le regole, di fatti, sono chiare: il campo cambia, ti fa perdere lui stesso volontariamente, parla, ha una sua volontà.
UNA FOTOGRAFIA GREEN Un grosso applauso vorrei farlo al direttore della fotografia che se non è diventato pazzo con questo film è solo un miracolo. Le scene girate sono pazzesche e l’evidente difficoltà di muoversi per il 90% del tempo in un campo fatto solo da lunghi steli di erba o mais che sia (non sono brava in botanica) è un punto a favore. Del resto personalmente ho sempre amato quei film dove ci sono pochi spazi, magari difficoltosi a livello cinematografico, ma che nel loro minimalismo riescono a non distogliere l’attenzione dalla storia (per esempio In linea con l’assassino). In questo caso gli spazi sono sia il luogo dove avviene la storia che uno dei personaggi e questo è reso davvero bene. Ci sono state un paio di scene che mi hanno fatto pesantemente percepire la vitalità del campo, anche grazie all’uso delle musiche e degli effetti sonori.
HORROR VECCHIO STILE Per le tematiche horror e paranormale, ho apprezzato davvero tanto la scelta generale di trama. Io che ho letto qualche racconto di Lovecraft e faccio giochi di ruolo ispirati a tali racconti, ho piacevolmente goduto di alcune scelte che però sono meno condivisibili ai più. Senza andare a fondo nella trama, sto parlando di quel tipo di racconto quasi ancestrale che non va a spiegarti davvero a fondo i perché di quello che avviene, ma ti dice che i protagonisti stanno assistendo a qualcosa di così antico, così inspiegabile che è necessario viverlo per poterne cavare un ragno dal buco. Mi è piaciuto molto il finale, che resta in questa filosofia di fondo dell’horror come era inteso cento anni fa.
RIASSUMENDO Lo consiglio agli amanti del genere horror puro, ma non aspettatevi un’immedesimazione nei personaggi perché resterete delusi.
Preferisco aspettare qualche giorno prima di parlare di un film, più che altro per sedimentare il tutto e lasciare a galla le cose più importanti che riescono a rimanere ancorate nella memoria.
Il giorno dopo l’uscita non mi sono fatta mancare l’occasione e, in una sala completamente vuota (altro che “one ticket please”) ho visto finalmente Parasite, il film del versatile Bong Joon Ho che si è guadagnato la Palma D’Oro al Festival di Cannes. Volutamente, come al solito, avevo cercato di andare in sala più spinta dai commenti “neutri” sulla pellicola e dai continui “guardatelo!” che leggevo sui social, evitandomi spoiler di trama che andassero oltre il trailer. Cercherò quindi di fare altrettanto, quindi niente paura non ci saranno spoiler.
Prima cosa che posso dire su questo film: guardatelo. Sarà la fortuna del principiante ma al secondo film che vedo e di cui scrivo qualcosa su questo blog posso solo ritenermi davvero una persona molto fortunata ad aver visto un’altra grande pellicola a meno di un mese di distanza.
Tutto il mondo è paese Questo film riesce perfettamente a farti dimenticare che stai guardando una pellicola coreana e non inteso in maniera cattiva, ma se si pensa al cinema più lontano a quell’idea occidentale che abbiamo delle sequenze, dei dialoghi e delle trame, spesso la prima paura è quella di non sentirsi vicini alla storia. Invece con Parasite stiamo parlando davvero la stessa lingua in ogni cosa. Si potrebbe dire che a facilitare il discorso è il fatto che il regista ha lavorato molto su altre pellicole americane, ma in realtà quello che traspare comunque dal film stesso è che non si sta parlando di qualcosa che viene forzato nella cultura della Corea del Sud, perché (fortuna o sfortuna) le tematiche che affronta il film sono presenti in ogni paese del mondo. Mi sono sentita totalmente immersa nelle storie dei personaggi e non ho faticato assolutamente a comprendere anche piccole sfumature magari lontane dalla mia quotidianità. I dialoghi sono perfetti: hanno un ritmo molto semplice, frazionati a volte da alcuni piccoli momenti di silenzio che calzano a pennello col bisogno di riflessione dello spettatore. La regia è quasi folle, con una sceneggiatura che si fa fatica a inquadrare in un genere perché tutto il film regge su commedia, dramma, thriller intercambiando e sfumando queste categorie quasi a volerle distruggere.
Parassita Il titolo è semplice e già il trailer ci dà un assaggio, seppur molto calcolato, su ciò che è il film. La famiglia Kim vive nel piccolissimo seminterrato di un palazzo. Padre, madre e due figli, tutti senza lavoro. Scroccano lo scroccabile, vivono quasi alla giornata e addirittura approfittano di una disinfestazione di strada per farsi disinfestare la “casa” stessa lasciando le finestrelle aperte così da far morire le cimici che li tormentano, poco importa se anche loro ci rimettono in salute. Un quadro abbastanza chiaro, che già dal titolo sembra parlare essenzialmente di questi quattro disgraziati e qui la parte comica in realtà diventa la chiave di tutto, perché nella loro semplicità le difficoltà vengono spesso quasi sminuite da una sottile ironia sulla loro vita e sul concetto anche un po’ scaramantico di fortuna.
Homo faber fortunae suae Diventa subito chiaro il motto della famiglia Kim, che non è essenzialmente quello di fregare gli altri, ma quello di cogliere immediatamente ogni occasione possibile per migliorare la loro posizione. Così (tranquilli, sto ancora attraversando un’analisi del trailer) Ki-woo (Woo-sik Choi), il figlio più piccolo della famiglia, decide di cogliere al balzo la proposta di un amico universitario che insegna privatamente inglese alla figlia di una ricca famiglia e che, dovendo egli partire per l’estero, gli chiede di sostituirlo. Ki-woo non ha un diploma, ma le conoscenze dell’inglese sono ottime ed è capacissimo di occuparsi di un simile incarico. Per i documenti ci pensa la sorella maggiore Ki-jung (So-dam Park) falsificando un attestato con Photoshop. Una piccola bugia che potrebbe però migliorare la situazione di tutta la famiglia. Come dicevo prima, di base non è un gioco al fregare i ricchi. La famiglia Kim vuole davvero lavorare, guadagnare e migliorare la propria posizione e riuscire ad uscire da quello scantinato decrepito.
Siamo sinceri Il concetto, soprattutto per l’idea che abbiamo noi italiani, mi ha fatto riflettere sul fatto che non riusciamo a condannare un’azione come questa: falsificare un documento per delle ripetizioni. Chi sono io per giudicare? Oggettivamente il ragazzo è bravissimo con l’inglese… non sta prendendo una cattedra in una prestigiosa università, fa solo le ripetizioni a una ragazzina ricca. Ed è qui che il film, partendo appunto da un modo leggero di presentarci i Kim, ci fa subito quasi tifare per questa piccola rivalsa e ci fa sperare che il loro piano possa andare in porto. Qualche soldo in più e già si mangia. Solo che il film è così corretto nei nostri confronti da farci già capire che, come esseri umani, semplicemente non basterà. Se si può avere di più perché non provarci?
Guarda caso Cercherò ormai di non affondare troppo nella trama del film proprio perché penso che sia necessario semplicemente vederlo per cogliere le varie questioni e sfumature. Però è già chiaro: prima Ki-woo, poi la sorella… insomma se c’è spazio per tutti in questa grande e ricca famiglia dei Park e si può fare qualcosa, perché dico ancora… perché non provarci? Quindi una sequela di raccomandazioni di una tizia che conosce un tizio che conosce un altro tizio… insomma ci siamo capiti.
I ricchi sono buoni perché sono ricchi Sembra quasi di tornare a parlare di Joker, almeno ovviamente sulla dinamica sociale della disparità tra chi vive nei bassifondi e chi invece ha addirittura una intera collina su cui adagiare la sua casa di design. La solita immagine di due mondi che si guardano da lontano e non entrano mai in contatto, come osservatori da una parte distratti dalla loro quasi noiosa quotidianità e dall’altra trasognati di fronte a tante possibilità. I ricchi ci vengono presentati dal punto di vista dei Kim: stupidi, creduloni e… ricchi, quindi gentili perché hanno i soldi e non stanno a contarli. E’ un’immagine forte questa, perché il film non cerca di darti una idea più aperta, più oggettiva, ma proprio vista dal basso di questa categoria sociale. Davvero chi è più ricco tende per natura ad essere più gentile? Ovviamente subito ho pensato “no assolutamente, la gentilezza non è qualcosa che si misura con il denaro, i regali etc.” ma riflettendo un attimo mi rendo conto di quanto invece è proprio il paradosso della società moderna: la critica sociale forte che traspare è come, nonostante le buone intenzioni di lavorare sodo per guadagnarsi il pane, gli stessi Kim sostengono di non essere delle brave persone perché lotteranno sempre per arrivare primi, per non farsi strappare nessuna possibilità dagli altri. I nostri protagonisti lo sanno e lo sostengono con forza: chi ha i soldi può permettersi di perderli, loro invece non possono permettersi di sbagliare, di farsi soffiare un’occasione di agiatezza qualunque e faranno di tutto per sopravvivere.
Guardatelo Non posso e non voglio dire molto altro su questo film, tranne che guardatelo. E’ una pellicola che corre veloce, inaspettata e straordinaria. Un cupo dramma travestito da commedia e viceversa, un susseguirsi di situazioni paradossali e classici prevedibili. Vi farà amare e odiare ognuno dei suoi personaggi, e un po’ anche voi stessi. Parasite apre velocemente le porte della narrazione e immerge lo spettatore dentro se stesso e dentro gli altri in un’altra pellicola necessaria per tutti in questo 2019.